martedì 22 marzo 2011

Sbagliando s'impara, ma...

...bisogna innanzitutto riconoscere l'errore. 

Sulla base di che cosa un fotografo ritiene una propria immagine sbagliata? 

La storia della fotografia è caratterizzata dalla continua ricerca della perfezione formale, soprattutto agli inizi; moltissime fotografie venivano etichettate come "sans debit" (non fatturato) perché contenevano qualche elemento giudicato errato. Siamo a metà del 1800, quando ancora la fotografia era una pratica di nicchia e quindi facilmente intendibile come professione. Il fotografo dell'epoca, che realizzava anche dei ritratti per farne delle "carte da visite", effettuava una cernita della serie realizzata, eliminando le immagini non idonee allo scopo. E bastava un leggerissimo mosso per escludere un'immagine, come è accaduto a questo ritratto di Monsieur Montrésor realizzato da André-Adolphe-Eugène Disdéri, che
A.A.E. Disdéri, dettaglio di una lastra di otto ritratti carte da visite
J.H. Lartigue - una Th. Schneider al Gran Premio del Club Francese dell'automobile,
venne appunto scartato per via del mosso sul libro. La storia è piena di esempi del genere, e non si può fare a meno di citare la fotografia, ormai un'icona, di Jacques-Henri Lartigue, raffigurante un'auto in corsa a 180km che, per via dell'otturatore a tendina, risulta deformata e, perciò, etichettata come errata. 
Nel corso del tempo il modo di relazionarsi con l'errore cambia, sia per fattori culturali che tecnici. Alcuni errori infatti, come quello dell'immagine di Lartigue, sono determinati dal tipo di apparecchiature utilizzate, i cui limiti vengono eliminati dalle nuove tecnologie (che, a loro volta, introducono ulteriori limiti, o meglio, "caratterizzazioni"). Clément Chéroux, nel suo "L'errore Fotografico, una breve storia" realizza una lucidissima disamina della storia dell'errore, allo scopo, non di elogiare ciò che gli altri screditano, non di dimostrare che nessuna fotografia è sbagliata (perchè non è così in effetti) e che quindi l'errore non esiste, ma per dimostrare come attraverso l'errore si palesa la vera anima della fotografia. Per comprendere cosa significhi questa affermazione il modo migliore è leggere il libro, ma per tentare di spiegarlo in poche parole possiamo fare riferimento, ad esempio, all'immagine di Lartigue: ciò che una volta era considerato errore è divenuto successivamente l'icona della velocità. Nell'ambito del movimento futurista, infatti, strettamente connesso con il mondo dei motori e delle corse, i vari artisti, nel cercare di rappresentare la velocità, raffiguravano le autovetture con deformazioni del tutto analoghe a quelle della fotografia in questione. Le ruote ovali divennero il simbolo della velocità e la stessa immagine di Lartigue divenne famosa proprio per questo (lo stesso autore, che aveva dimenticato l'immagine, la ripescò dall'archivio allorché gli fu necessaria una fotografia che rendesse l'idea della velocità. 


L'errore, insomma è condizionato dal tempo in cui l'immagine è, non tanto o non solo prodotta, ma valutata, perché cambiano i canoni di valutazione. Ma c'è un altro elemento che condiziona la vautazione dell'errore e che Chéroux indentifica nello spazio. La valutazione dell'immagine varia, ad esempio, a seconda del format dell'autore/osservatore, tale che una fotografia può apparire errata all'amatore, irrecuperabile al professionista, ma può interessare l'artista (molti artisti infatti cominciarono a trovare interessanti le fotografie "sbagliate", dalle quali traevano ispirazione).


Ma cos'è esattamente l'errore? Il significato comune del termine è quello di "allontanamento dal giusto": errore è qualcosa che è diverso, in senso negativo, da quelle che erano le necessità e le aspettative in relazione all'atto di produzione del quid che è dunque risultato errato. Tuttavia esiste un significato più ampio di errore, più poetico, che lo intende come l'andare errando, il vagabondare, errare... 
Tale concezione dell'errore è esattamente quella nella cui ottica si inseriscono le sperimetazioni di Man Ray o Laslò Moholy-Nagy, tutte caratterizzate dall'effetto di Serendipity, effetto che conferisce all'errore così inteso non già la valenza negativa di cui sopra, bensì una valenza totalmente positiva. La serendipity infatti descrive la probabilità di vedere i propri errori trasformarsi in un successo o di trovare qualcosa senza averla cercata specificamente. Più esattamente l'effetto di serendipity consiste in una produzione fortuita ma non totalmente, nel senso che una forma di attività astrattamente orientata alla ricerca di qualcosa di vagamente positivo deve esserci. Qualcuno ha definito la Serendipity come il cercare un ago in un pagliaio e trovarci dentro (al pagliaio) la figlia del contadino. Voi capite... Un colpo di fortuna coadiuvato insomma.
Bene, è proprio in quest'ottica che gli autori di cui sopra hanno iniziato a sperimentare, senza sapere esattamente cosa cercavano, ma certi di cercare qualcosa di speciale. Sono nati così i rayogrammi e la serie di ombre di Moholy-Nagy. Una sorta di viaggio nell'erratum consapevole, cercando di scoprire cosa succede se si infrangono alcune regole, se si sperimenta senza un piano prestabilito. Anche il regista Wim Wenders realizzò delle riprese con la cinepresa rivolta all'indietro e camminando senza meta (errando appunto), con l'intenzione, a suo dire, di realizzare delle riprese "genuine" e libere dall'influenza dell'operatore. In realtà si è dimostrato che questa influenza è sempre presente, ma si è comunque trattato di esperimenti interessanti.

L'errore dunque è un'entità davvero difficile da inquadrare e da definire, ma è di certo esistente! Tutto il volume di Chéroux potrebbe essere tranquillamente frainteso ad una lettura poco attenta, perché sembra contenere solo argomenti volti ad avvalorare la tesi di Benjamin Vautier secondo cui "il n'y a pas de photos ratées" (non esistono fotografie errate). L'errore esiste in una entità definita, è la sua percezione a mutare a seconda del luogo e del momento della sua valutazione. D'altra parte se così non fosse non sarebbe possibile imparare dai propri errori. Ed è proprio questo il senso di questa mia digressione.

Tornando infatti al punto di partenza, per poter imparare dai propri errori è necessario innanzitutto riconoscerli, capire che si è sbagliato e dove. Eppure, questa necessaria autoanalisi è sempre meno praticata; l'operazione di selezione e "cestinaggio" delle proprie immagini è sempre più esangue e i margini di tolleranza si fanno via via più alti. 
Ma cosa c'è di male nel conservare una propria immagine, ma anche cento, cui si è particolarmente affezionati? Assolutamente nulla, anzi, alle volte lo ritengo un dovere: penso alle fotografie di un parente caro che, pur con tutti i difetti possibili, sono le uniche disponibili, ma anche alle immagini dello sbarco a omaha beach di Robert Capa, malridotte eppure le uniche esistenti e perciò stesso inestimabili.
Ma che stiamo dicendo allora? 
Beh, ci si renderà conto che una cosa è conservare una immagine dei cui errori siamo consapevoli e che merita per altri versi la conservazione, altra cosa è non essere consapevoli dell'errore. A volte succede un altro fenomeno strano: il fotoamatore non solo conserva una immagine errata, magari realizzata nel corso di sperimentazioni varie, ma la pubblica su internet, o comunque la utilizza, curandosi però di specificare che è affetta da errori, come a voler indirizzare il giudizio dell'osservatore dicendogli "guarda che lo so che è sbagliata, quindi se hai intenzione di farmelo notare astieniti, non è necessario". Una sorta di recinzione al pubblico giudizio. Errore! manco a dirlo... La consapevolezza dell'errore serve, da sempre e in ogni campo, ad evitare di ripeterlo in futuro, non a tentare (invano) di affrancare una fotografia da esso.
In tal senso, solo lo studio, l'applicazione e la sperimentazione (anche random) consentono di acquisire gli strumenti necessari per individuare gli errori dapprima, e per evitarli in un secondo momento. 

1 commento:

sandro ha detto...

Davvero interessante la teoria dell'errore.